Arrestati un imprenditore agricolo ed il suo uomo di fiducia operanti ad Apricena: accertate gravi condizioni di sfruttamento della manodopera.
Applicata ancora una volta la misura dell’amministrazione giudiziaria a tutela dei lavoratori e del tessuto socio-economico del territorio. Sottoposte cinque aziende.
Nella mattinata odierna i Carabinieri del Comando Provinciale di Foggia e del locale N.I.L., su direzione e coordinamento della Procura della Repubblica di Foggia, hanno dato esecuzione a un’importante misura cautelare applicativa degli arresti domiciliari, emessa dalla Sezione G.I.P. del Tribunale di Foggia, nei confronti di un noto imprenditore agricolo di Apricena, operante nella provincia di Foggia, e del proprio “braccio destro”, preposto alla conduzione delle sue cinque aziende.
I provvedimenti restrittivi della libertà personale in questione rappresentano il primo esito di una complessa attività investigativa “anticaporalato”,diretta dalla Procura della Repubblica di Foggia e sviluppata da una “task force anticaporalato” appositamente costituita da personale del Comando Provinciale Carabinieri di Foggia e da militari del N.I.L. Foggia, che hanno operativamente condotto l’indagine attraverso attività tecniche in supporto a quelle tradizionali di osservazione, controllo e pedinamento. Un vero e proprio pool voluto ed organizzato dalla Magistratura e dal Comando dell’Armafoggiani per contrastare così – in forma dedicata – il tanto diffuso quanto deprecabile fenomeno del “caporalato”, ancora estremamente presente e radicato in Capitanata.
La misura cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Foggia, su richiesta della Procura della Repubblica,contestanello specifico ireati di concorso di persone inintermediazione illecita e sfruttamento del lavoro aggravati (artt. 110 cp – 603 bis cp), cui si aggiunge un ampio corollario composto da altre violazioni previste dal D. Lgs. 81/2008 in materia di formazione dei lavoratori sui rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro, nonché relative all’igiene del lavoro e di uso dei dispositivi di protezione individuali.
La manodopera, costituita da un numero assai rilevante di lavoratori extracomunitari di diverse nazionalità (in prevalenza africane ed albanese), quasi tutti reclutati dai “ghetti” presenti in provincia, ma anche comunitari ed italiani, veniva impiegata nelle aziende agricole in condizioni di assoluto sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, in dispregio delle più basilari norme in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro.
Più in particolare, le condizioni di sfruttamento accertate nel corso dell’attività investigativa erano costituite, tra le altre, anche dallareiterata corresponsione ai lavoratori di un compenso che variava tra un minimo di 3,33 ai 5,71 euro l’ora, in totale violazione delle previsioni contenute nei contratti collettivi nazionali e territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali di settore.
A ciò si deve necessariamente aggiungere che l’attività investigativa ha svelato un altro aspetto caratterizzante la condizione di sfruttamento dei lavoratori in merito alla reiterata violazione della normativa di settore relativa all’orario di lavoro ed ai periodi di riposo. È stato infatti accertato che molti dei lavoratori erano impiegati nelle attività di coltivazione tutti i giorni della settimana, per una media variabile tra le 7 e le 9 ore giornaliere, senza concessione di alcun giorno di riposo e con una pausa di circa 30 minuti per il pranzo, peraltro non sempre concessa, in assenza dei prescritti periodi di ferie e malattia.
Di evidente rilevanza risulta poi quanto riportato nell’ordinanza cautelare “sia in merito alla farraginosa modalità creata dall’imprenditore per garantire l’astratta corrispondenza tra quanto indicato in busta paga e quanto versato a titolo di retribuzione (che dunque prevedeva la restituzione in contanti del surplus da parte dei lavoratori), sia con riguardo alla compravendita delle giornate di lavoro, che fornisce all’imprenditore sgravi contributivi: la contestazione di un solo falso bracciante, infatti, comporta per l’azienda la restituzione di tutti gli sgravi di cui ha usufruito con riferimento al trimestre in cui è presente il lavoratore fittizio”. Il “sistema” si basava infatti su più metodi fraudolenti. Nel caso del lavoratore che aveva interesse a vedersi riconosciute, ai fini contributivi, le giornate lavorative effettivamente fatte gli veniva versato un assegno o un bonifico che riconosceva il pagamento delle ore lavorate corrispondente alle previsioni normative, che il ricevente doveva poi però restituire in contanti per la parte eccedente gli accordi presi in precedenza sulla paga oraria. E questo caso riguardava tutti i lavoratori italiani. Nel caso, invece, in cui il lavoratore non fosse a conoscenza del proprio interesse a vedersi riconosciute le giornate di lavoro, nello specifico gli stranieri, i più bisognosi, il pagamento avveniva sempre in maniera tracciata, ma secondo la retribuzione pattuita in spregio alla normativa di settore, e l’azienda comunicava all’INPS non il numero di giornate effettivamente fatte, ma solamente quelle che andavano a far coincidere la somma elargita con le giornate che in teoria si sarebbero dovute svolgere per raggiungere quella somma. In più, le indagini hanno permesso di accertare l’esistenza di falsi rapporti di lavoro, realizzati mediante la “compravendita di giornate lavorative”, in virtù della quale l’azienda comunicava all’INPS l’assunzione e la messa al lavoro di soggetti che poi al lavoro non si presentavano proprio, col vantaggio reciproco di aumentare percentualmente la quota di “sgravio contributivo” a favore dell’azienda compiacente, e del riconoscimento delle indennità assistenziali a favore del lavoratore fittizio.
Per l’arco temporale coperto dall’indagine, tra il gennaio ed il luglio 2019, è stato quindi accertato che le imprese riconducibili all’indagato hanno nel complesso avuto un tornaconto di poco meno di 650.000 euro per le parziali retribuzioni, causando un danno all’Erario di oltre 280.000 euro.
Un ruolo fondamentale in questo “sistema malato” era ricoperto dall’uomo di fiducia dell’imprenditore, tanto a lui legato da avere la disponibilità una sua masseria dove vive, il quale, con cadenza abituale, riferiva di eventuali problematiche relative ai braccianti, offrendo talvolta anche le relative soluzioni. Era lui il tramite tra i lavoratori impegnati nell’attività di coltivazione e l’imprenditore agricolo, oltre a ricoprire anche il ruolo di collegamento con gli altri caporali della zona per reclutare la manodopera da impiegare.
Anche in questo caso, infine, è stato ottenuto l’importante risultato della sottoposizione al controllo giudiziario delle cinque aziende agricole risultate di fatto riconducibili all’imprenditore, attraverso la nomina da parte del GIP del Tribunale di Foggia di un amministratore giudiziario, con il compito quindi di attuare tutte le procedure per la regolarizzazione della corretta gestione aziendale, assicurando anche il pieno ed effettivo ripristino dei diritti dei lavoratori. Queste realtà aziendali, nel complesso, nel periodo oggetto dell’indagine avevano un totale di 222 dipendenti, che, oltre ai 1968 ettari di proprietà, ne lavoravano numerosi altri presi in affitto, per un volume di affari nel 2019 calcolato in oltre 5 milioni e 800 mila euro.