di Domenico Carbone
Dal censimento voluto nel 1809 dal vicerè di Napoli, Gioacchino Murat, i molini, detti anche centimoli, a Cerignola erano 89. Questo dato parla da solo, sia per dire della portata alimentare dei cereali che della connessa rilevanza fiscale che assumeva la loro trasformazione in pane e pasta.
Le tante pagine scritte sulla tassa sul macinato – in passato anche causa della caduta di molti governi nazionali – che dette luogo ad annosa vertenza tributaria fra il feudatario, Duca d’Egmont, e l’Università di Cerignola, primo nome dell’amministrazione locale – le sintetizziamo nel senso che un orientamento più chiaro si ebbe soltanto con la fine feudalesimo nel 1806.
Giova, invece, qui far cenno dell’importanza che hanno avuto da queste parti i molini dal punto di vista industriale. Antesignano in tal senso è stato il molino Rinaldi, poi Cibelli. La famiglia Rinaldi trasferì agli inizi del XX secolo la fabbrica artigianale di via Torrione nella Terravecchia in un modernissimo insediamento industriale sulla via per Manfredonia sulla quale era stata costruita la Stazione Ferroviaria di Cerignola Campagna.
L’intelligente ubicazione fu realizzata con una struttura che – dotata di impianti della Società Meccanica Lombarda azionati con motori a gas povero e, per la successiva fase della lavorazione, da macchinari cilindrici della Tosi e Wolf di Milano a processo automatico – arrivava a produrre 200 quintali di farina al giorno.
Rimangono vibranti le appassionate pagine di Cosimo Dilaurenzo ne “I molini a Cerignola”, ed. Mezzina, 2006 – Molfetta, dalle quali emana l’odore del grano, la fragranza della farina e la voglia di progresso che la fatiscenza del fabbricato non può cancellare.